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Emerge come da una faglia, la scrittura di Giovanni Fontana, e si sparpaglia lungo i traversi crinali dello scarto. Tema capitale del vivere collettivo, è qui l'oggetto di un rovello linguistico e di una costruzione verbovisiva incandescenti. E la furia della parola - percorsa da sussulti, battiti, corrispondenze e frizioni - pronuncia il grido sgomento di fronte al "paesaggio dell'esplosione", davanti a quella "waste land" che affiora, e s'accumula, ai bordi delle nostre esistenze. Le questioni pronunciate scavano nelle macerie per mettere a fuoco, con successive approssimazioni, quel cannibalesco "desiderio del desiderio" che muove i nostri gesti, presi dentro il "gorgo di oggetti" che calamita l'orizzonte contemporaneo. Fontana inarca la sua voce in una scrittura verbale e visiva franta e prensile, in dispacci che ci indicano che, alfine, "i rifiuti sono corpi nostri", guaste e dissipate propaggini di "noi rifiuti urbani".